43′ OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL – Trio MiXMONK feat. Joey Baron
Baron – De Looze – Verheyen: la 43′ edizione di Open Papyrus chiude in bellezza con un trio d’eccezione e un batterista poeta

Articolo di Daniela Floris. Foto di Carlo Mogavero per JazzDaniels
OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL 43 edizione, Ivrea, Cortile Museo Garda, sabato 9 settembre, ore 22:30
MixMonk Trio feat. Joey Baron
Joey Baron: batteria
Bram De Looze: pianoforte
Robin Verheyen: sax
Scrivo questo articolo nella convinzione che le parole scritte, come spesso accade ma stavolta di più, non riusciranno a far materializzare un’idea chiara dei suoni che si sono librati durante un concerto che non si esagera a definirlo ammaliante.
Si potrebbe parlare di eleganza, ma poi verrebbe in mente una ricercatezza meramente estetica. Si potrebbe parlare di soavità, ma se ne smentirebbero i molti momenti di intensità bruciante.
La verità è che la musica era un intreccio, perfetto, di armonia e di contrasti. Una specie di quadratura del cerchio.
Un concerto SENZA microfoni. Solo suoni acustici.

Comincia Joey Baron, in solo, pianissimo, sulle pelli. Non tocca i ride a lungo.
Entra il sax di Verheyen, il clima è swingante, si intensifica lo spessore sonoro ma non il volume.
Il duetto con il pianoforte di De Looze vede l’entrata delle bacchette in luogo delle spazzole. La sensazione è quella di sentir passare la melodia dal piano, alla batteria, al piano. Le cellule ritmiche dalla batteria, al piano, alla batteria.

Sono molti gli episodi ragguardevoli, preziosi, di un concerto straordinario.
Quando, ad esempio, al tocco minimale, delicato del pianoforte, ai suoi arpeggi fiabeschi, risponde il sax, atonale, free, aspro. Un contrasto potenzialmente stridente e in realtà percepito come armonico equilibrio.


Quando in questo dialogo entra Joey Baron, l’atmosfera cambia ancora. All’armonia inusuale dei suoni si aggiungono i battiti, che sembrano quasi accordi, e linee melodiche vere e proprie. Come può essere?
Joey Baron cerca ogni vibrazione in ogni punto della sua batteria. Suona a volume contenuto, attirando l’attenzione di chi ascolta sui particolari, sulle sfumature, su mondi sonori meravigliosamente piccoli e densi, che se deflagrasse rimarrebbero inesplorati.

E’ un musicista che ti prende per mano e ti porta ad ascoltare in silenzio con gli occhi spalancati (non solo le orecchie) verso lo stupore di un’infinità di suoni. In questo modo riesce a dare un senso anche alle improvvise incursioni sui forti, sui fortissimi, che non sono mai muscolari e gradassi: sono allegri, vitali, poetici.

Joey Baron si gode ogni attimo del suo suonare. Quando trova una cellula ritmica la cura, la persegue, la rilegge cambiando elementi della batteria, dando loro timbri e colori diversi, rendendoli preziosi.

Crea anche silenzi. Sono pause che sembrano occorrergli per ascoltare: recepire un flusso, un respiro, che esistono nell’aria, percepibili solo da lui, fortunato mortale.

Ascolta, seleziona, metabolizza, e dona, usando le bacchette, le mani, i tom, i metalli, le spazzole. Ogni silenzio permette a chi ascolta di percepire le vibrazioni precedenti, e a lui di ascoltare quelle che arriveranno di lì a poco.


Con un simile Maestro di suoni possono suonare solo musicisti sensibili, attenti a vibrazioni iridescenti e cangianti. Musicisti che ascoltino, nel senso più alto del termine.
De Looze al pianoforte ha questa sensibilità. Ha un tocco particolare, delicato e teso. Negli assoli è espressivo, intimo, coinvolgente. Nei dialoghi con la batteria sa cogliere l’importanza di quei silenzi di cui si diceva sopra: ne asseconda il timing, inflessibile. Ma è capace di recepirne quegli impercettibili (quasi impercettibili), sapienti, impulsi di attesa che scardinano lo scorrere del tempo del pentagramma.



Verheyen al sax ha una tecnica eccelsa. Ma, come raramente accade ai sassofonisti “tecnici”, è totalmente asservita alla musica. E’ totalmente in sintonia con Joey Baron, lo contrasta proficuamente con lunghi fraseggi aspri, o piccoli suoni appena accennati, cercando, e trovando, anche attorno a sé, suoni da riportare a chi ascolta.



Quando si ascolta musica come questa non si presenzia semplicemente a un concerto di Jazz. Senza rendersene conto, alla fine si è imparato ad ascoltare, a recepire sottigliezze tanto impercettibili quanto stupefacenti. E anche ad apprezzare contrasti, apparentemente inconciliabili, che divengono nuovi equilibri. Si dirà che il Jazz è questo, nulla di nuovo: risponderò che se il Jazz è autentico, si ascolterà sempre qualcosa di nuovo, da un procedere uguale, quello dell’improvvisare, e dell’ascoltarsi reciproco. Questo accade quando i musicisti seguono il proprio istinto e il proprio vissuto senza aggrapparsi a stilemi di altri.
Ecco i musicisti che raccolgono i loro applausi a Ivrea.

Lo sfruttamento, il razzismo, le guerre sono intorno a noi e fingere di non vederli, considerarli ormai normali non risolve il problema.
Questo scrive nella pagina di Open Papyrus Jazz Festival il direttore artistico Massimo Barbiero, spiegandone la dedica a Rosa Parks.
Che fare allora? Basta un concerto, una mostra, un libro o una coreografia a salvare il mondo? Forse no, ma la cultura ha il compito di raccontare la realtà, di descriverla nella maniera più dura. La cultura parla sempre a chi vuole sentire e, soprattutto, a chi non ha paura di sentire. L’importanza della cultura: quella risorsa immateriale per eccellenza, qualcosa di complesso, che passa per il sentimento di cittadinanza e di appartenenza, piuttosto che d’immobile identità.”
E se a un concerto impari ad ascoltare ciò che ti circonda, con attenzione, ad apprezzare i contrasti, a metabolizzarli, hai imparato qualcosa di più che la musica.